Andrea Signorelli – Milanese, classe 1982, giornalista freelance. Scrive di innovazione digitale e del suo impatto sulla società per La Stampa, Wired Italia, Domani, Il Tascabile, Esquire Italia, cheFare e altri.
Da una parte, chi ritiene che sia la prossima grande rivoluzione di internet, in grado di sbloccare un livello superiore e di realizzare le massime potenzialità della rete.
Dall’altra, chi pensa che sia solo un’etichetta vuota: una colossale operazione di marketing che ha il solo scopo di creare una nuova buzzword dietro la quale mascherare gli scarsi successi che la blockchain e le criptovalute – che, come vedremo, ne sono il cuore pulsante – hanno ottenuto a livello pratico negli ormai oltre dieci anni di esistenza.
In mezzo ci siamo noi tutti, confusi e disorientati da un termine ancora vagamente definito, ma che sentiamo nominare sempre più spesso e che fa il paio con i tanti altri neologismi tecnologici che in questi anni hanno preso a circolare con forza: NFT, metaverso , GameFi, realtà estesa e altro ancora. Accanto a tutte queste etichette, e alla base di molte di esse, c’è la terza incarnazione della rete: il web3.
Per capire di che cosa parliamo quando parliamo di web3, bisogna inevitabilmente tornare indietro nel tempo e ripercorrere le precedenti due versioni. La prima incarnazione del web è quella che ricorda chiunque abbia ancora impresso nei ricordi il ronzio di avviamento della connessione internet di un modem 56K.
È il web degli esordi , quello che ha iniziato a diffondersi a partire dalla metà degli anni ’90 e che era caratterizzato dalle pagine HTML statiche. È una rete che per la massa di utenti (all’epoca ancora piccola) è fruibile in forma esclusivamente passiva, navigando tra siti d’informazione, siti aziendali, pagine amatoriali e anche i primissimi portali di eCommerce (Amazon nasce d’altra parte nel 1994). È una versione del web in cui, per sintetizzare brutalmente, si può fare principalmente una sola cosa: leggere.
Nei primi del 2000 inizia a farsi largo la seconda versione: il web 2.0 , termine coniato dalla web designer Darcy DiNucci e poi reso popolare dal guru della Silicon Valley Tim O’Reilly. È un’evoluzione che ha tra i primi esempi di successo Wikipedia (nata nel 2001): l’enciclopedia libera che tutti possiamo non soltanto consultare, ma anche contribuire a scrivere e migliorare.
Il web 2.0 è quello che parecchi addetti ai lavori definiscono la versione “read/write” (leggi e scrivi) di internet , che permette a tutti gli utenti – indipendentemente dalle competenze informatiche – di creare pagine web, di modificare quelle già esistenti, di aggiungere commenti ad articoli altrui.
È il web dei forum e che offre a chiunque la possibilità di creare blog utilizzando piattaforme come Blogger, WordPress o l’italiana Splinder. È la rete in cui l’utente non è più soltanto un consumatore di contenuti, ma un “prosumer” (crasi tra producer e user) che contribuisce quindi a produrre attivamente gli stessi contenuti che poi consuma.
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Il logico passo successivo – che veramente ha cambiato il mondo – è quello dei social network : Facebook, Twitter, Instagram e le altre grandi piattaforme che consentono a chiunque di condividere testi, foto, video, contenuti e altro ancora.
Sono le piattaforme che, da una parte, liberano nuove ed enormi potenzialità espressive e di circolazione dell’informazione su internet, ma dall’altra danno vita ai cosiddetti “walled garden” : giardini recintati che rinchiudono il web, che nella prima versione era libero e distribuito, all’interno di pochissimi colossi della Silicon Valley, che sfruttando il “lavoro” gratuito di miliardi di utenti che creano contenuti per Facebook e gli altri, ammassano guadagni stratosferici.
Peggio ancora: dal momento che il modello di business di tutte queste realtà (che rappresentano l’apice del web 2.0) è rappresentato dalla pubblicità targettizzata in base agli interessi degli utenti, la seconda versione del web diventa la base su cui costruire il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”, in cui gli utenti diventano prodotti i cui dati vengono raccolti in massa per essere venduti al miglior offerente.
Ed è proprio qui che vuole intervenire il web3 , togliendo potere ai colossi della Silicon Valley, ridando vita all’internet decentralizzata e distribuendo l’enorme potere economico della rete – oggi concentrato in pochissime mani – a tutti gli utenti che prenderanno parte a questa terza incarnazione del web, sfruttando le potenzialità della blockchain e delle criptovalute. Grande promessa o pericolosa truffa?
Se c’è una cosa che il web 2.0 ci ha insegnato è a essere scettici. Nato all’insegna del “connettere le persone per rendere il mondo un posto migliore” si è dimostrato uno straordinario modo per concentrare la ricchezza mentre i social network venivano accusati di distruggere la democrazia.
E così, è inevitabile che le mirabolanti promesse del web3 vengano accolte con molta più cautela. È tutta una mossa architettata da venture capitalist come Marc Andreessen (fondatore della storica società di investimenti Andreessen Horowitz) che hanno investito miliardi di dollari nei progetti basati sul web3? È solo un modo per continuare a tenere vivo il prezzo di criptovalute che ancora oggi hanno usi estremamente limitati nel mondo quotidiano?
Prima di tutto, proviamo a chiarire che cosa sia il web3 usando la definizione che ne ha dato già nel 2018 Chris Dixon su OneZero : le piattaforme del web3 sono “network costruiti su internet che usano meccanismi di consenso come la blockchain e che permettono di impiegare le criptovalute per incentivare la collaborazione di tutti i membri della rete”.
Da questo punto di vista, il web può essere considerato come la versione “read/write/own” di internet, in cui oltre a leggere (come nel web1) e a scrivere (come nel web 2.0) possiamo anche possedere delle quote delle piattaforme che utilizziamo e partecipare alla governance delle stesse, usando a questo scopo la blockchain e le criptovalute per automatizzare e disintermediare una parte dei processi.
Confusi? È inevitabile: il web3 esiste ancora oggi solo in fase embrionale, utilizza strumenti estremamente complessi come la blockchain e introduce meccanismi di governance non facili da intuire al primo colpo. Alcuni esempi delle piattaforme web3 già esistenti possono però aiutarci a fare chiarezza: Filecoin è una sorta di Dropbox della blockchain che permette a tutti di salvare contenuti nel cloud. Il cloud di Filecoin non ha però sede nei data center di proprietà di qualche colosso del settore, ma negli hard disk di tutti i computer collegati a questa blockchain.
Invece di affidarsi a un’azienda privata per salvare le proprie fotografie, si può sfruttare la memoria libera delle migliaia di computer collegati alla blockchain di Filecoin, tramite la quale è sempre possibile controllare su quali hard disk sono salvati i nostri dati, monitorare gli spostamenti e reclamare automaticamente tutto ciò che ci appartiene. Chi affitta lo spazio presente sull’hard disk del proprio computer tramite Filecoin ottiene in cambio una quantità proporzionale della criptovaluta collegata, chiamata Fil, che può poi essere venduta sulle tradizionali piattaforme di compravendita di criptovalute.
Una piattaforma come Filecoin è quindi decentralizzata , perché non vive in qualche data center di proprietà dei soliti colossi della Silicon Valley, è gestita tramite una governance distribuita , perché chiunque partecipa al network può prendere parte anche alla sua gestione (con un potere decisionale che è spesso proporzionale alla quantità di token che si possiedono) e offre quindi a tutti gli utenti che entrano a farne parte la possibilità di essere al centro di un’economia digitale che distribuisce i guadagni generati a tutti i nodi della rete.
E i social network? Alcune prime piattaforme di questo tipo, basate sul web3, stanno effettivamente cominciando a vedere la luce: uno dei primissimi casi è APPICS, la cui applicazione è stata distribuita sugli app store nell’aprile di quest’anno. APPICS è una piattaforma social basata su blockchain che permette a tutti gli utenti di guadagnare criptovalute sulla base della loro attività sui social. L’obiettivo è di trasformare una “vanity metrics” come i like dei tradizionali social in una valuta dotata di valore economico.
“È la rete in cui l’utente non è più soltanto un consumatore di contenuti, ma un “prosumer” (crasi tra producer e user) che contribuisce quindi a produrre attivamente gli stessi contenuti che poi consuma.”
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L’esperimento che forse più di ogni altro permette però di comprendere come potrebbe funzionare un social network che incorpori al suo interno le criptovalute è però quello di Reddit.
Come spiegato su Slate , “Reddit sta iniziando a farsi largo nel web3 immaginando come utilizzare i token per consentire agli iscritti di possedere porzioni delle comunità che partecipano al sito. L’idea è che gli utenti useranno delle monete chiamate Community Points, guadagnate in base al numero dei post pubblicati e in base a quanti voti positivi o negativi riceveranno. Queste monete offriranno un proporzionale diritto di voto, consentendo a chi pubblica i contributi di maggiore valore di avere voce in capitolo sulla gestione della comunità”.
Non si tratta soltanto di una governance decentralizzata, ma anche quindi di uno strumento che permette di guadagnare a tutti gli utenti che conquistano quote – sotto forma di criptovalute – della piattaforma. Se la piattaforma a cui partecipiamo ha successo, e quindi un numero maggiore di persone vuole acquistarle, queste quote aumenteranno inoltre di valore, consentendo a chi più ne possiede (o prima ha investito) di guadagnare.
Gli utenti più attivi o che creano i contenuti più di qualità diventano parte integrante della gestione della piattaforma e i relativi token che attestano la “proprietà” di una parte di essa possono non solo essere venduti, ma aumentare il loro valore in base a quanto successo ha la piattaforma. Vista così, si capisce abbastanza chiaramente quale sia il meccanismo che permette al web3 di essere decentralizzato, distribuito e di permettere a tutti gli utenti di entrare a far parte di un nuovo ecosistema economico.
Le potenzialità però maggiori in assoluto sono forse quelle espresse dalla cosiddetta GameFi, la finanza dei videogiochi. Immaginate di iscrivervi a un videogioco di corse: per gareggiare, come già oggi in alcuni casi avviene, bisogna prima acquistare una vettura e personalizzarla, comprando i vari accessori necessari a potenziarla.
In questo caso, però, la corsa mette in palio un montepremi in criptovalute, distribuito tra i primi classificati. Non solo: se dopo un certo numero di gare e di guadagni decidete di ritirarvi dal mondo delle corse digitali, potrete vendere l’Nft (il certificato digitale di proprietà) della vostra auto al miglior offerente.
Ancora: potete affittare la vostra auto a qualche pilota che non ha il capitale necessario a crearne una da zero e poi ricevere una parte delle sue vincite. Tutti questi processi – così come nelle varie piattaforme web3 – verrebbero automatizzati tramite smart contracts, dei contratti intelligenti basati su blockchain che entrano automaticamente in esecuzione quando le condizioni sottoscritte tra le parti vengono soddisfatte.
Questo è un esempio teorico di come potrebbero funzionare in un prossimo futuro le piattaforme di “gaming finance” basate su blockchain, che permettono, utilizzando criptovalute dedicate, di guadagnare denaro (oppure anche di perderlo) sfidando gli avversari o portando a termine alcune missioni.
Nel mondo reale, uno fra gli esempi più noti di GameFi è CryptoBlades : è un gioco di ruolo online in cui è necessario sconfiggere mostri, o completare per primi alcune missioni, per guadagnare la criptovaluta Skill. Tutti i personaggi e gli accessori possono essere rivenduti sul mercato secondario all’interno del videogioco, che al momento conta circa 500mila utenti mensili.
Un’altra piattaforma molto diffusa è invece Alien Worlds: un gioco di ruolo in cui i partecipanti devono combattere tra loro o portare a termine missioni per conquistare le risorse del pianeta su cui si trovano, riuscendo così a fare mining della criptovaluta Trilium. I giocatori possono inoltre guadagnare ulteriore denaro affittando parte dei loro terreni (e quindi delle loro risorse) ad altri giocatori.
Axie Infinity richiede invece di allevare, personalizzare a scambiare alcuni mostriciattoli ispirati ai Pokemon, mentre Upland permette di partecipare a una sorta di Monopoli online in cui si possono però guadagnare soldi veri.
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Per quanto, al momento, le piattaforme GameFi offrano principalmente giochi di ruolo online, è facile immaginare che nel futuro questa economia digitale basata su blockchain potrebbe svilupparsi anche all’interno dei videogiochi tradizionali e consentire, per esempio, di organizzare tornei online in stile Mortal Kombat, ma con in palio soldi veri (in forma di criptovalute) e in cui i personaggi customizzati di maggiore successo diventano oggetto di compravendita.
Le potenzialità economiche della GameFi sono dimostrate anche dai finanziamenti che si stanno riversando su questo settore : l’hedge fund Andreessen-Horowitz ha partecipato a un investimento da 150 milioni di euro nella società vietnamita Sky Mavis (ideatrice di Axie Infinity), valutata oggi 3 miliardi di dollari, mentre Justin Sun, Ceo di BitTorrent, ha creato un fondo d’investimento specializzato in GameFi da 300 milioni di dollari.
Davvero in futuro tutti i gamer vorranno essere ricompensati per le loro imprese nel mondo virtuale (e ovviamente rischiare anche di perdere i soldi investiti)? Davvero tutti gli utenti attivi dei social network avranno voglia di prendere parte al processo di governance della piattaforma? Siamo sicuri che non preferiremo sfruttare una piattaforma cloud centralizzata, come Amazon Web Services, che permette di utilizzare un servizio comodo, efficace, sicuro e senza creare a noi utilizzatori nessun grattacapo di alcun tipo?
In futuro le piattaforme di “gaming finance” basate su blockchain, potrebbero permettere, utilizzando criptovalute dedicate, di guadagnare denaro (oppure anche di perderlo) sfidando gli avversari o portando a termine alcune missioni.
Per quanto le potenzialità del web siano enormi, la centralizzazione di oggi ha un grandissimo vantaggio: è molto comoda. Per quanto metta tutto il potere economico nelle mani di pochissimi colossi e per quanto abbia trasformato l’utente in merce in vendita (con tutte le invasioni e gli abusi della privacy che abbiamo imparato a conoscere), è molto probabile che la stragrande maggioranza degli utenti non sia interessato a mettersi in gioco in prima persona – anche a livello economico – per entrare a far parte di un nuovo ecosistema digitale.
D’altra parte, ancora oggi, solo il 5% degli europei e l’8% degli statunitensi possiede criptovalute. Per quanto possano diffondersi, è molto difficile immaginare che non sia soltanto una parte di questi – nerd, strenui difensori della privacy, cripto-entusiasti – a prendere davvero parte al web3. Soprattutto se consideriamo che, ancora oggi, anche solo conservare criptovalute sul proprio portafoglio digitale è un processo macchinoso (per non parlare di quanto lo sia acquistare un NFT) e che richiede una certa dimestichezza. Quanti anni saranno necessari affinché questo ecosistema così ampio e ambizioso sia davvero user-friendly? Probabilmente si tratta di una prospettiva ancora lontanissima, e che soltanto allora potrà (forse) prendere piede.
Se il web 2.0 ha in larga parte sostituito la prima incarnazione del web quasi da un anno all’altro, è molto probabile che il web3 prenda – almeno per gli anni a venire – una strada diversa: che si accosti al web 2.0 , diventandone gradualmente un’alternativa sempre più valida ed equa.