Daniel: Inevitabilmente concordo sul tema appena accennato riguardante la difficoltà di prendere decisioni in un ambiente altamente entropico. Questo si verifica sia quando le informazioni sono scarse sia quando sono eccessive, al punto da generare confusione. Hai anche toccato il tema della mancanza di priorità, spesso risultante dalle pratiche aziendali o da una gestione poco chiara da parte dei vertici. Come si possono allora prendere decisioni rapide e corrette in un contesto così complesso?
Andrea: Secondo me, c’è una soluzione, ma prima una premessa: non esistono decisioni giuste al 100%. Nessuno, nemmeno McKinsey, che talvolta sbaglia, può offrire questa certezza. Questa è già un’informazione fondamentale. Il secondo elemento cruciale è che la differenza tra una decisione buona e una cattiva sta nell’esecuzione, ovvero come le persone attuano quanto deciso. Chiunque, sia imprenditore o gestore di una piccola azienda, sa quanto questo sia importante. Non basta discutere e decidere; a volte si riesce a superare le aspettative iniziali coinvolgendo attivamente le persone. Una decisione efficace, anche in situazioni di urgenza o con informazioni limitate, richiede le persone giuste al tavolo.
Prendiamo un caso possibile: hai un problema su un mercato dove la concorrenza ti sta mettendo sotto pressione e devi prendere rapidamente una serie di decisioni. Decidiamo di mantenere il magazzino? Assumiamo tre persone? Cosa facciamo? Qui emergono molte domande che riguardano una situazione di incertezza totale e il contesto internazionale, ovviamente, non aiuta. Tipicamente, potrebbe succedere che il proprietario prenda una decisione e la comunichi al direttore commerciale. Questo è un modo di affrontare le questioni, ma coloro che sono coinvolti nell’esecuzione e ricevono questa decisione, non è detto che si comportino nel modo migliore possibile, con tempi di esecuzione che possono essere molto lunghi.
Immagina invece di dire: “Fermi tutti, venite qua”, e di coinvolgere dal direttore commerciale alle persone sul campo, dal gestore dei fornitori locali fino a un grande cliente che apprezza la collaborazione e trae beneficio dal lavorare con te, creando una catena di valore composta da molte persone che portano con sé pezzi di conoscenza. Nessuno di loro ha la soluzione completa, ma ciascuno possiede un pezzo degli elementi che possono concorrere alla soluzione migliore. Nel libro ne parlo un po’, è facile decidere queste persone: serve chi sa, chi fa e chi decide. Chi sa perché ha la conoscenza di dov’è, chi fa le cose perché queste hanno un impatto a cascata su altre persone che hanno una propria visione del mondo, e ci sono dettagli che non puoi sapere se non fai parte dell’esecuzione, anche se l’hai fatta dieci o vent’anni fa. Chi decide, infine, deve considerare che se discutiamo tra di noi e poi parliamo con il capo, la sua idea, benché valida, potrebbe rendere la discussione fine a sé stessa e lasciarti frustrato perché non hai realizzato ciò che volevi.
Se coinvolgi queste tre categorie di persone, probabilmente puoi affrontare la problematica in modo diverso. In breve tempo puoi decidere qualcosa di adatto per te in quel momento, con maggiori probabilità di successo se sono tutti d’accordo e hanno condiviso tutte le informazioni necessarie. Non è detto che sia la decisione giusta, ma con questo livello di conoscenza e gestione, probabilmente potrai anche convocare un altro meeting tra tre mesi, invece di aspettare un anno, evitando così che l’azienda possa chiudere malamente.
Daniel: Volevo proprio toccare il punto riguardante il coinvolgimento del team. Se da un lato questo può essere di aiuto nel breve termine, secondo te, potrebbe essere una soluzione anche a lungo termine? Spesso si affrontano temi legati all’identità e al motivo per cui, nel circolo di informazioni, si prendono decisioni estremamente urgenti sia nel breve che nel lungo termine. Di ciò parlavamo: creare una struttura aziendale più solida possibile. A questo proposito, potrebbe il coinvolgimento essere una soluzione? O esistono altre soluzioni in un contesto entropico e di iper-informazione come l’attuale? Partendo dalla premessa che c’è una forte miopia da parte delle aziende.
Andrea: La miopia aziendale è spesso causata dalla difficoltà di gestire l’incertezza. Di conseguenza, le aziende gestiscono la certezza limitando le decisioni e gli investimenti a breve termine: tre, sei, dodici mesi. Questo ovviamente limita la visione a lungo termine. È evidente osservando il mondo politico, che si concentra solo sul tempo delle elezioni, senza progettare a venti, cinquanta, o cento anni nel futuro. Quanto al capitale umano, nonostante si parli da anni di ‘Human Capital’ nelle aziende, raramente è veramente al centro dell’attenzione. Provo a lanciare una provocazione: credo che la funzione di leadership debba includere la gestione delle persone, poiché la vedo come fondamentale nell’amministrazione dell’intera azienda. Se la tecnologia continuerà a guadagnare terreno, l’elemento umano nella gestione organizzativa diventerà ancora più cruciale a lungo termine.
Quindi, se realmente si investisse nella qualità delle persone e nel loro ambiente di lavoro, dalla qualità del lavoro agli spazi di lavoro e alla salute mentale, si potrebbe consentire un significativo salto qualitativo. È evidente che nelle piccole imprese, dove la leadership del proprietario guida un team di 25 dipendenti, esiste una certa dinamica interna; tuttavia, anche in questi contesti, i miglioramenti sono possibili e necessari. Anche se probabilmente migliorerebbe la qualità della vita di tutti, incluso quella del padrone. Le due cose possono coesistere; tuttavia, in un contesto aziendale strutturato, vedo come unica soluzione quella di migliorare la qualità delle persone gestite in modo diverso. Questo aumenta la visione a lungo termine. Se sei più sicuro di ciò che stai facendo e disponi di strumenti diversi, forse riesci anche a elevarla un po’, ma condivido la fatica estrema quando conduciamo i nostri workshop.
Ovviamente, capita sempre di dover analizzare gli scenari, perché cerco di proiettarli costantemente nel futuro. Mi è difficile far considerare prospettive a venti o trent’anni; devo impormi. E l’imposizione è utile, fidatevi. Poi, parliamo anche di cosa faremo tra sei mesi e domani mattina, perché è parte di una conversazione corretta. Se non elevi un po’ la tua visione, come diceva Starck in un suo famoso Ted Talk, con il suo caratteristico accento inglese-francese, guardando sempre per terra si finisce per non vedere gli ostacoli immediati. Se guardi troppo indietro, perdi di vista ciò che hai davanti. E se guardi troppo in alto, verso l’orizzonte, perdi il contatto con la realtà, il che può distoglierti completamente dal tuo contesto attuale.
Intelligenza artificiale? Sì, ma di cosa stiamo parlando? Se voli troppo alto, finisci per perdere il contatto con la realtà; ti concentri solo su ciò che hai fatto in passato e non osservi ciò che accade intorno a te. Sì, potrebbe funzionare se sviluppi qualcosa che non impatta direttamente il tuo mercato e forse sopravviverai. Ma, ad esempio, ciò che è successo con la guerra in Ucraina e in Israele potrebbe essere un avvertimento: la prossima crisi potrebbe colpirti direttamente e, se non sei preparato, potresti essere vulnerabile. La strategia corretta è mantenere una visione a 360 gradi, con un orizzonte ampio e distante.
Daniel: Ottimo, andiamo verso la conclusione di questa chiacchierata. Allora, cosa consiglieresti a un giovane imprenditore che si lancia in un’impresa domani? Ovviamente, ci riferiamo a un contesto aziendale strutturato, non parliamo di un professionista autonomo. Quali suggerimenti vorresti offrire per chi sta avviando un proprio progetto aziendale? Ad esempio una start up?
Andrea: Che domanda difficile. Le startup nascono spesso su basi personali, frequentemente legate a conoscenze tecnologiche che innescano il progetto. Tuttavia, c’è sempre qualcosa che manca, quindi il primo consiglio sarebbe fare una vera analisi delle competenze disponibili. Esistono aziende specializzate in questo, ma capisco che una startup potrebbe non avere fondi da investire in consulenza. Tuttavia, un vero assessment delle competenze del team è cruciale perché ti permette di capire immediatamente cosa ti manca, magari un elemento chiave in finanza. La seconda cosa da considerare è che, come sai, il 90-95% delle startup fallisce; accettare questa realtà è fondamentale. È una esperienza da cui imparare, quindi è essenziale non rallentare ma accelerare, investendo il 100% della tua passione e del tuo impegno. Ogni nuovo progetto, soprattutto in una startup, può funzionare solo se ci si impegna completamente.
Un tema interessante riguarda le dinamiche che modificano profondamente una startup durante la sua evoluzione. Negli anni, cercando di comprendere la resistenza al cambiamento nelle organizzazioni, mi sono fatto un’idea, forse errata, ma evocativa: la startup è come una ciurma di pirati. I pirati, esperti nel loro lavoro, creano un ambiente di fiducia reciproca essenziale per la collaborazione. Tuttavia, se arriva una sfida maggiore, possono anche disperdersi rapidamente. In una startup, simile ad una ciurma, le competenze sono elevate e la gestione dell’incertezza è cruciale. Senza procedure formali, si agisce prontamente per risolvere i problemi attingendo alle competenze disponibili, che sono altamente rispettate.
Man mano che la startup cresce, è naturale cercare di aumentare l’efficienza, il che spesso comporta l’introduzione di software e processi che riducono i tempi di attività da venti giorni a tre. Tuttavia, questo efficientamento può causare malcontento tra i membri originari che non si trovano più a loro agio nella nuova struttura regolamentata. Inoltre, la necessità di specificità nelle competenze porta a reclutare specialisti per compiti ristretti, trasformando la flessibile ciurma in una brigata altamente strutturata. Questo può ridurre la resilienza e l’adattabilità dell’organizzazione, creando difficoltà quando si cerca di navigare in direzioni nuove. La soluzione potrebbe includere team building e altre strategie per rompere vecchi schemi e affrontare le sfide emergenti in un contesto aziendale che inevitabilmente evolve.
Un leader competente deve comprendere fin dall’inizio che esistono sacche di inefficienza critiche da mantenere e aree di efficienza totale da perseguire, questo fa la differenza. Quindi qui non possiamo permetterci errori, dobbiamo essere impeccabili. L’investimento di tempo e risorse deve mirare al massimo risultato possibile, ma è altrettanto importante riconoscere che ci sono periodi o aree che richiedono un certo grado di inefficienza per progredire, altrimenti non si avrebbe modo di crescere. Non è un caso che il massimo del disordine di un sistema, cioè il caos, sia caratterizzato dall’energia massima, mentre l’efficienza massima, come nel caso del cosmo, corrisponde a un’entropia di zero. Pertanto, in un sistema con un’entropia nulla, cercare di essere innovativi è estremamente complesso e quasi impossibile. Non sono un fisico, ma posso immaginare che sia estremamente difficile. Perturbare il sistema è una delle strade possibili. I grandi imprenditori lo hanno fatto, lo fanno ancora oggi, forse con una frequenza maggiore rispetto ai cicli di cinque o dieci anni fa, poiché è diventato una necessità quotidiana. Se non si introduce questa dinamica nel sistema, è probabile che non si riesca a sopravvivere, data la velocità del cambiamento.
Non che negli anni passati, diciamo 100 anni fa, fosse diverso, però il cambiamento era più graduale, sebbene fosse altrettanto significativo. Probabilmente c’era più tempo per assimilarlo e affrontarlo. Oggi, invece, questo processo ha effetti imprevisti che è necessario anticipare e gestire in modo diverso. Tuttavia, come si dice, dal caos nascono stelle danzanti. È esatto. E considerando il costo di una start-up, immagina ora il contesto di un’impresa che sta attraversando un cambio generazionale. Questo è un classico scenario per le PMI, soprattutto nel contesto italiano, dove si sta verificando una transizione di questo tipo.
Daniel: Quindi, secondo la tua visione e la tua esperienza, che hai riportato anche nel tuo libro sulla cultura dell’incertezza, cosa consiglieresti in questo caso?
Andrea: È un tema di grande importanza perché l’Italia si fonda sulle piccole e medie imprese, che sono molto più numerose rispetto al resto del mondo, dove persino una piccola impresa può contare centinaia di dipendenti, anche se probabilmente non è il caso comune. Ed è un argomento cruciale se consideriamo quante aziende stanno chiudendo senza un adeguato ricambio generazionale. Allora, due punti vengono in mente. In primo luogo, prendersi del tempo, cosa che vale per tutti, ovviamente. Ma se sei il proprietario di un’azienda di valore e non riesci a gestire efficacemente il passaggio generazionale, non è un processo naturale o fluido come in alcune aziende; probabilmente devi prenderti del tempo, significa staccare, riflettere, chiedere aiuto. Ci sono mille sistemi, ma l’importante è che questo processo non può essere affrontato solo giorno per giorno; se continui a lavorare costantemente, finirai per scontrarti continuamente. E ovviamente, i conflitti più gravi avvengono tra parenti o tra fazioni, e se l’azienda ha un valore, le questioni economiche complicano ulteriormente la situazione. È fondamentale riuscire a prendere le distanze per gestire al meglio la situazione.
La seconda questione riguarda la scarsa qualità del management in Italia, in generale. Se escludiamo una generazione di manager formati dalla Bocconi, che hanno gestito per lo più il Paese, il resto del panorama non è altrettanto rilevante. Questo è un tema cruciale, perché le grandi aziende di oggi non hanno più la stessa forza derivata dalle competenze dei fondatori del dopoguerra. Uno dei motivi di ciò, che affronto anche nel mio libro, è la mancanza di capacità di delega. Se sei il fondatore di un’azienda e hai una certa età, conosci così bene ogni singolo aspetto che è difficile delegare qualcosa; e anche quando lo fai, tendi a farlo con qualcuno che ha un approccio simile al tuo. Ma se questa persona è simile a te, probabilmente vuole fare le cose a modo suo, il che può portare a conflitti e alla tendenza a circondarti di persone che ti dicono sempre di sì ma non offrono le prospettive che vorresti. Così, non vedi la necessità o la possibilità di delegare nulla, creando un circolo vizioso. Perciò, nel contesto del passaggio generazionale, la delega diventa un tema importante da affrontare.
Ci sono persone che ho conosciuto, anche straordinarie, le cui famiglie hanno una tale influenza che i figli non hanno costruito nulla di proprio, non sono usciti a cercare nulla perché l’ombra dei loro genitori era così dominante. Devi veramente farli crescere alla luce del sole, non all’ombra del padre. La soluzione migliore sarebbe farli esperire altrove. Ho visto molte aziende gestite dai figli che sono stati all’interno dell’azienda fin dai tempi degli studi. Ma, accidenti, non hanno visto nulla del mondo! Prima o poi avranno voglia di esplorare, no? È meglio che facciano esperienze fuori, magari in settori diversi. Se dovessi dare un consiglio, direi di mandarli il più lontano possibile per alcuni anni. Una volta che hanno acquisito esperienza, possono tornare a dirigere l’azienda con maggiore autorevolezza, specialmente nei confronti degli altri dipendenti. Ma se li tenete sotto la vostra ala, dubito che abbiano la capacità di avere un impatto significativo. In quel caso, sarebbe meglio vendere l’azienda a un fondo che vi dia denaro subito e dirvi addio. Ma intanto, come nazione, abbiamo perso competenze e 30 dipendenti, insieme a una serie di altre problematiche.
Daniel: Assolutamente d’accordo, e mi hai fatto pensare all’ultimo punto, all’ultima domanda da fare. Mi hai fatto tornare in mente che stavamo discutendo di aziende, PMI e culture aziendali, e ad esempio la tematica del lavoro ibrido in questo momento è molto rilevante, considerando il terremoto degli ultimi anni. Voglio anche ricollegarmi al tuo punto di partenza riguardo al tema degli spazi di lavoro, che è estremamente interessante e so che te ne stai occupando di recente. Un punto su questo, la tua visione su questo argomento. Quindi, qual è il rapporto con il lavoro oggi e cosa sta accadendo? Cosa vedi e cosa ti immagini? Ne abbiamo parlato ampiamente. Oggi il tema del lavoro è ritornato, con un’enfasi sul rapporto e la relazione con il personale. Abbiamo affrontato temi importanti, come ad esempio l’ambito della leadership. Sulle modalità del lavoro di oggi, cosa puoi dirmi?
Andrea: Non ci siamo messi d’accordo su questo ma a ottobre parte in SUPSI qua in Ticino all’Università della Svizzera italiana un breve “master” (non è proprio la definizione più corretta) di 16 giornate sul tema del workspace, perché è un tema che sta diventando centrale in molte conversazioni, quindi sul tema ibrido-remoto-Smart, lavoro in ufficio eccetera. Il comune denominatore è diventato il tema della performance cioè che la qualità del lavoro che svolgi sostanzialmente, che sembrava fosse in crescita perché se sei a casa ti fai i cavoli tuoi lavori quando vuoi, poi come tutti quelli che hanno figli famiglia eccetera hanno capito che a casa non è che si lavori benissimo. E in più, a meno che tu non sia molto avanzato nella tua esperienza professionale, quindi molto solido, riesci a interagire con gli altri ma altrimenti è anche difficile perché alienante cioè sostanzialmente è anche difficile imparare no? 80-20. 80 impari nella relazione con gli altri non soltanto attraverso quello che fai. E poi senza considerare che perdi completamente la casualità dove probabilmente impari ancora un sacco no quindi tutti temi che fanno riportare all’ufficio come un luogo preposto per il lavoro di qualità però torna in ufficio ancora con la scrivania?
Fa un po’ ridere, sostanzialmente, perché sono passati centinaia di anni dalla prima volta che ci siamo seduti a una scrivania, eppure torniamo ancora a essa. C’è qualcosa che non va. Non sono né a favore né contro il lavoro remoto; credo che sia giusto lasciare un certo livello di flessibilità ai lavori che lo permettono. Questa flessibilità forse oggi ha bisogno di essere regolamentata diversamente. Non ha senso fare call da casa e poi farle anche quando si è in ufficio. Piuttosto, potremmo essere flessibili il lunedì e il venerdì, mentre martedì, mercoledì e giovedì si lavora in ufficio per tutti. Questo solleva preoccupazioni in azienda per quanto riguarda la rotazione degli spazi. Inoltre, c’è un tema fondamentale: la qualità del lavoro dipende dal luogo in cui lo svolgi. Per anni, si è parlato dell’open space come di un’innovazione rispetto ai cubi alla Matrix o agli uffici divisi in tante piccole stanze, ma è chiaro che l’open space non è la soluzione perfetta.
Ho bisogno di fare conference call e interviste? In base alle esigenze c’è un mondo diverso da esplorare. Si parla proprio di “activity based work”, cioè avere un luogo diverso per ogni tipo di attività. Questo aspetto sta diventando molto interessante, ed è per questo che il titolo del piccolo master è “workspace specialist”. Infatti, il workspace non è solo una responsabilità del facility manager, che si limita a gestire scrivanie e sedie. Spesso ci sono regole rigide che impediscono di spostare gli arredi, e questo può limitare le dinamiche di lavoro. Ad esempio, se in una sala di 25 metri quadri c’è un tavolo che occupa quasi tutto lo spazio, non è ideale per sessioni di brainstorming. Forse c’è un angolino che nessuno utilizza più perché è tutto storto, con fogli consumati e pennarelli che non scrivono. Tutti abbiamo visto situazioni del genere. Invece di tornare ai tempi della New Economy degli anni ’80, con le aziende che avevano il letto sopra la scrivania, dobbiamo ragionare in modo diverso.
Significa fare un mix di cose utili per poter lavorare meglio, sia a casa che in ufficio. Questo è fondamentale, perché forse abbiamo creato uno spazio confortevole e di qualità dove lavorare da casa, rispettando le nostre esigenze, e lo stesso vale per l’ufficio, specialmente ora che ci andiamo meno spesso. Immaginate un’azienda distribuita, dove prima andavate magari una volta alla settimana alla sede principale, e adesso magari ci andate otto volte all’anno. Quando ci andate, volete mettervi nelle migliori condizioni possibili. Questo fa davvero la differenza. È un tema fondamentale su cui c’è ancora molto da indagare. Da diversi anni se ne parla, e sebbene non sia completamente nuovo, sta diventando sempre più rilevante. Anche dal punto di vista immobiliare, le aziende con uffici vuoti si stanno chiedendo cosa farne, e questo ha ovviamente un’importanza economica significativa.
Daniel: Va bene, Andrea, chiuderei qui questa lunga e densa conversazione, piena di concetti e ispirazioni. È stato un piacere comunicare con te, e vorrei sottolineare ancora una volta l’influenza del tuo libro, “La cultura dell’incertezza”, che ha dato vita a gran parte di questa discussione. Ti ringrazio ancora per essere stato con noi, sei stato eccezionale.
Andrea: È stato un grande piacere, grazie a voi!
Daniel Casarin, imprenditore ed analista indipendente, si dedica al mondo della comunicazione, del marketing, del business design e della trasformazione digitale. Con oltre 20 anni di esperienza, esplora l’impatto delle tecnologie emergenti in ambito economico e organizzativo. Attraverso Adv Media Lab e altre iniziative imprenditoriali, collega la sua expertise multidisciplinare al mondo dell’impresa.
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